News 15 | 06 | 2021

Che il deficit registrato dal vino italiano nel 2020 fosse tutto da contestualizzare lo avevamo già detto in passato. Ad ulteriore conferma arrivano oggi i dati del Consorzio del Brunello di Montalcino, con una notizia interessante per tutta la filiera: nell’anno della pandemia il segmento Brunello ha registrato incrementi del +12,2%.

Un aumento delle transazioni che riguarda sia le vendite sul territorio nazionale che l’export, e che va completamente a scardinare quelli che sono alcuni dei più comuni pregiudizi accumulati a seguito dell’emergenza sanitaria. Un successo che, tradotto in valore, rappresenta circa 9 milioni di euro, come certificato anche dall’ente Valoritalia che ne ha confermato le percentuali.

Un successo dovuto, in parte, alla grande capacità di permeare il mercato estero, soprattutto quello di lusso, di questo vino, ma anche al continuo investimento di questi ultimi anni, culminato proprio nel 2020, in strategie da remoto come scouting online di importatori, webinar formativi e promozione.

Export 2020: i vini high end perdono quota, ma non il Brunello

Uno dei dati più significativi del 2020 è stata la perdita in valore di alcuni dei più prestigiosi vini internazionali, a cominciare da quelli di Borgogna. Proprio dalla Francia, infatti, è partito il più indicativo crollo del mercato enologico della vecchia Europa, con l’Eliseo che, alla fine dell’anno, ha dovuto fare i conti con una perdita complessiva delle transazioni export del 17%.

Ad aggravare la situazione ci si è messa anche la questione Brexit e altri inconvenienti vari ed eventuali, come l’applicazione di nuovi protocolli anti-dumping sul vino di importazione in Cina, che ha fatto crollare gli ingressi di prodotti australiani e cileni nel Paese.

Tuttavia, già nel dicembre scorso, appariva chiaro quanto fossero state ampiamente smentite le previsioni di chi sosteneva che a soffrire maggiormente le ripercussioni della crisi in atto fossero stati i produttori di vini high end. I dati diffusi da Nomisma, Osservatorio Vinitaly, Federvini e altri importanti enti del settore sembrano invece essere concordi sul contrario: a pagare la crisi sono state, purtroppo, le piccole cantine, specie quelle maggiormente legate al settore della ristorazione.

Proprio il settore ricettivo, infatti, duramente colpito dalle ripercussioni della pandemia, ha tirato con sé il resto dell’indotto, ovvero quei produttori che da sempre avevano trovato nel canale Horeca il proprio sbocco per la distribuzione di vini a livello locale e all’estero.

La grande lezione del Brunello Di Montalcino

Tra le parole più abusate dall’inizio della pandemia per descrivere la crisi dei mercati alimentari, una su tutte ha monopolizzato il dibattito pubblico: qualità.

Si è parlato di qualità quando, in previsione di nuovi dazi sul vino di importazione nel Regno Unito a seguito dell’entrata in vigore della Brexit, si gridava a gran voce la necessità di mantenere alti gli standard per restare competitivi sul mercato.

Lo stesso è accaduto per il crollo delle vendite in Cina, dove sempre di più inizia a prendere piede la diffusione di vini locali, con grande scandalo (e un po’ di invidia, diciamocelo pure) della comunità enologica internazionale. D’altronde, se nella Napa Valley gli statunitensi possono produrre vino in cantine che riproducono fedelmente i castelli settecenteschi del Chianti, perché nella Ningxia non sarebbe possibile fare altrettanto?

Infine c’è la questione nord europea, con un numero sempre maggiore di nazioni, come Germania e Svezia, ma anche alcuni territori nel nord della Francia, che a causa del cambiamento climatico hanno iniziato a sperimentare la produzione di vini in territori fino ad oggi inaccessibili, dichiarando (sulla carta) di voler puntare – ovviamente – tutto sulla qualità.

Ha, allora, ancora senso parlare di “qualità” all’interno di questo mercato? Certo che si, ma è necessario anche restare competitivi. La grande lezione che nel 2020 il Brunello è riuscito ad insegnare al resto dell’Italia del vino è, forse, proprio questa: non basta più il “buon nome” del vino italiano, è necessario trovare nuove strade per raccontarlo e venderlo.

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